La sostenibilità è entrata a pieno titolo nel dibattito scientifico. Da anni e molto prima che il termine permeasse quotidianamente le dichiarazioni programmatiche delle istituzioni e la pubblicità delle imprese, gli esperti stavano esplorando la fattibilità di modelli di sviluppo economico e modi di produrre che non intaccassero la disponibilità delle risorse ambientali ed economiche per le generazioni future e garantissero un upgrading sociale. Ripensare i modelli di business ed intervenire nelle attività produttive richiede tempi non brevi e la valutazione di dinamiche complesse. Esse sono state però travolte dalla semplificazione che è conseguita alla, pur legittima, necessità di diffondere i presupposti della sostenibilità nel nostro operare quotidiano. A giocare contro la scrupolosità di molti e valenti studiosi che hanno sottolineato la complessità di tali cambiamenti è intervenuta anche una sorta di inibizione degli stessi studiosi verso un approccio che poteva apparire didascalico nei confronti degli operatori e che, se percepito tale, sarebbe rimasto confinato nei conclavi degli esperti. Chi oggi scrive di sostenibilità, del suo presupposto, la responsabilità sociale di impresa e del suo corollario, l’economia circolare, si espone ad entrambi i rischi. Il dato da cui parte questo lavoro resta, nonostante la consapevolezza testé espressa, la necessità di suggerire elementi di riflessione sui meccanismi – complessi – della riconversione dei modelli di business e anche di fornire dati tecnici che potrebbero sostenere la pianificazione da parte delle imprese di strategie di crescita sostenibile nel settore della moda. Il presente lavoro si avvale, infatti, di un doppio registro. Alla riflessione concettuale sulla responsabilità sociale di impresa e sulla sostenibilità - anzi, come emerge dai lavori del mondo accademico, sulla sovrapposizione tra i due impianti teorici - si affianca la ricostruzione dei comportamenti degli operatori del settore oggetto di analisi mediante una sorta di inventario degli standard adottati e dell’attitude da essi espressa nei confronti di questa tematica, attitude ricavata da, seppur parziali, inchieste qualitative. La scelta di focalizzare l’attenzione sull’industria della moda ed in particolare sul comparto del Tessile e Abbigliamento (T&A) scaturisce da due fattori: il peso che questo settore ancora esprime nel comparto manifatturiero del nostro paese e il grado di inquinamento da esso determinato. Quanto al primo di questi fattori, va ricordato che secondo i dati ISTAT rielaborati dall’ICE e dalla Confindustria Moda, questo comparto rappresenta, nonostante il ridimensionamento in atto da decenni, la seconda industria del paese in termini di numero di imprese, fatturato, contributo all’export. Il secondo fattore, reso noto non solo dagli esperti ma anche dalle inchieste giornalistiche italiane e straniere, è che il comparto del T&A è al secondo posto nel ranking dei settori che contribuiscono all’inquinamento globale, a ridosso cioè dell’industria energetica. Senza contare la race to the buttom in termini di diritti sociali che lo permea in maniera trasversale ai confini nazionali e agli stadi di sviluppo e le implicazioni etiche legate al maltrattamento degli animali. Alla scelta del settore, ha fatto seguito l’individuazione di alcune aree geografiche su cui apporre la nostra attenzione e avviare quel lavoro di ricostruzione del comportamento degli attori economici e istituzionali che avrebbero potuto corroborare la nostra intuizione originaria: la complessità di una riconversione troppo spesso semplificata da istanze di divulgazione. La scelta è caduta sull’Italia che resta la seconda potenza manifatturiera dell’Europa e sulla Cina e il Vietnam, entrambi destinazione di molteplici processi di delocalizzazione dell’industria moda e del comparto del T&A e, come vedremo, laboratori di adeguamento agli standard della responsabilità sociale di impresa e della sostenibilità. L’impostazione del libro, come detto, è segnata da un doppio registro. Da un lato, propone una review del dibattito scientifico sui temi della corporate social responsibility (CSR) e della sostenibilità quali leve di competitività, con un’analisi dello stato dell’arte di questo dibattito in realtà come la Cina e il Vietnam che si trovano spesso all’altro capo della filiera di produzione. La matrice teorica che ne deriva spiega le riflessioni del mondo scientifico ed istituzionale nel ritenere che la sostenibilità, declinata nell’attenzione all’impatto ambientale e alla dignità dell’uomo nei processi produttivi, sia un pilastro portante per costruire la performance del sistema moda nell’immediato futuro. Esplorare le posizioni delle istituzioni e delle comunità imprenditoriali della Cina e del Vietnam, consentirebbe inoltre di eludere l’impatto che le recenti tendenze verso l’accorciamento delle filiere di produzione possono sortire sulle relazioni con questi paesi e, almeno sul piano della ricerca, di proseguire nell’individuazione di modelli di business sostenibili che connettano l’industria della moda italiana con realtà che si stanno traducendo anche in mercati di sbocco sempre più ampi e esigenti in tema di responsabilità. Dall’altro lato, il testo si propone di spiegare, da un punto di vista manageriale, il fabbisogno di innovazione sostenibile, relativamente a risorse, competenze e processi; gli approcci gestionali e i meccanismi di governance per regolare le relazioni con le suppy chain. Propone un articolato inventario degli standard utilizzati nei tre paesi di riferimento e delle best practice rintracciate. A ciò si aggiunge una indagine qualitativa che, seppur condotta su campionature limitate, offre uno spaccato del mondo imprenditoriale e delle associazioni di categoria. L’esigenza degli autori di approfondire questi temi nasce anche dalla convinzione che le opportunità di asservire la logica della sostenibilità all’aumento della competitività, della riconoscibilità e della reputazione delle produzioni moda italiane siano ancora tante. Su questo aspetto il testo da un lato, intercetta l'accresciuta consapevolezza da parte degli attori economici (Italia in particolare) e istituzionali (Cina in particolare) della necessità di ripensare i modelli di produzione, e dall’altro evidenzia l’oggettiva difficoltà delle imprese ad affrontare i rischi insiti in una riconversione dei processi di produzione che richiede investimenti rilevanti sull’intera filiera a fronte di un modello di consumo etico che, in gran parte del mercato globale, stenta a superare le dimensioni dell’attuale domanda. In ragione, infatti, dello scarso potere d’acquisto delle grandi masse di consumatori che si stanno affacciando sui mercati o di un debole afflato ambientalista o viceversa di una versione radicale dell’impegno ambientalista che orienta verso il non consumo, la domanda di prodotti etici certificati, seppure presenti tassi di crescita a due cifre, resta confinata a segmenti limitati del mercato. Spostandoci, sul fronte interno all’impresa, le difficoltà si annidano soprattutto nelle competenze del capitale umano, ancora non formate ad affrontare la riconversione nel modo di produrre, e nella scarsa informazione sui costi reali della sostenibilità e dell’impatto che essa sortisce sul ROA e sui profitti. Tutte queste difficoltà sembrano sostenere una tendenza (per il momento solo tale) verso la cosiddetta “filiera corta”, l’unica finora in grado di consentire il controllo delle singole fasi del processo di produzione e di imporre quelle innovazioni di processo coerenti con gli obiettivi della sostenibilità. Ancora, lo stato dell’arte del sistema industriale e la sovrapposizione tra pratiche volontarie di CSR e politiche istituzionali improntate allo sviluppo sostenibile, sembrano condurre ad una riformulazione delle geometrie di potere tra imprese e istituzioni con una marcata prevalenza di queste ultime che, in nome e per conto del benessere di tutti gli stakeholder, tendono a ridimensionare il carattere volontario delle scelte operate dalle imprese. E’ probabile che il concorso di questi fattori abbia determinato la risposta tiepida sulla riconversione dei modelli di produzione fin qui espressa dalla grande maggioranza delle imprese del settore T&A. Scendendo nel dettaglio di questa affermazione, va detto che quello che sembra emergere è un sistema produttivo diviso in due modelli distinti. Da un lato, i grandi brand che discutono dei temi della sostenibilità e che - in Italia e in Cina (meno in Vietnam che si propone come “fabbrica del mondo” alternativa alla Cina) - tendono a imporsi come esempi virtuosi, di cui però non si conoscono le ricadute sull’intera filiera. Infatti, uno degli effetti della riorganizzazione, ormai trentennale, del rapporto tra produzione e distribuzione e dell’allungamento delle filiere di produzione è stato, per l’appunto, l’emersione di pochi brand a cui fa riscontro una pletora di supplier che operano in forma anonima e in una logica di ribasso dei costi. La domanda d’obbligo è se questi esempi si riverberano sull’intera filiera e se le istituzioni preposte allo sviluppo siano in grado di sostenere i costi della riconversione. Il cambiamento culturale che tutto ciò richiede è solo ai primi passi e non siamo riusciti ad ottenere dalle nostre inchieste altro che dichiarazioni di principio o vaghi impegni programmatici. Dall’altro, il sistema produttivo odierno si contraddistingue per l’emersione di tante piccole imprese che abbracciano i principi della sostenibilità fin dalla formulazione dell’idea imprenditoriale, di start up innovative che sperimentano nuovi materiali provenienti dalla lavorazione di scarti e rifiuti di attività produttive di settori diversi. Tali realtà si stanno rendendo sempre più visibili sui mercati del business to business e presso la domanda finale, ma la strada da compiere per far affermare nuovi modelli di consumo (ad esempio, i capi in prestito), così come per il successo dei principi dell’economia circolare nel ripensare le materie prime, è lunga. Un elemento, però, ha in parte liquidato lo scetticismo che potrebbe maturare dall’analisi e rispondere alla vaghezza dei primi attori e alla necessità di far emergere i secondi: l’European Green Deal, l’impegno lanciato dalla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen per un’Europa che esca dalle secche del dibattito sull’ austerity e investa sul profilo della sostenibilità. La Presidente ha detto: «Il Green Deal europeo è la nostra nuova strategia di crescita. Contribuirà a ridurre le emissioni e al tempo stesso creerà occupazione. Al centro vi sarà una strategia industriale che consentirà alle nostre imprese - grandi e piccole - di innovare e di sviluppare nuove tecnologie, creando al contempo nuovi mercati. Stabiliremo standard a livello globale. Questo sarà il nostro vantaggio competitivo. E il miglior modo per assicurare parità di condizioni. Ma tutto questo dev'essere nell'interesse dei cittadini europei, che vogliono e si aspettano che l'Europa intervenga in materia di clima e di ambiente. Ma hanno anche bisogno di energia pulita e sicura a prezzi accessibili. Hanno bisogno delle competenze per svolgere i lavori del futuro. Hanno bisogno di spostarsi per svolgere questi nuovi lavori o di collegarsi da casa. E noi dobbiamo fare in modo che queste esigenze siano soddisfatte in maniera sostenibile». E’ lecito pensare che a questa dichiarazione d’intenti facciano seguito interventi finanziari, fiscali e formativi per le imprese, come peraltro sta già accadendo proprio in questi giorni con la costituzione, in Italia, del Fondo di Transizione Equa. Pertanto, vogliamo dare per scontato che laddove non abbia funzionato appieno il contributo scientifico a sostegno della tesi sulla responsabilità sociale di impresa come vantaggio competitivo, a convincere le imprese riesca la possibilità di accedere a fondi europei e di proporsi sui mercati internazionali come espressioni coerenti del modello economico della regione del mondo più votata al connubio tra crescita e qualità della vita. Alessandra De Chiara e Marisa Siddivò

Responsabilmente alla moda. Filiere sostenibili del tessile-abbigliamento tra Italia, Cina e Vietnam.

De Chiara
2020-01-01

Abstract

La sostenibilità è entrata a pieno titolo nel dibattito scientifico. Da anni e molto prima che il termine permeasse quotidianamente le dichiarazioni programmatiche delle istituzioni e la pubblicità delle imprese, gli esperti stavano esplorando la fattibilità di modelli di sviluppo economico e modi di produrre che non intaccassero la disponibilità delle risorse ambientali ed economiche per le generazioni future e garantissero un upgrading sociale. Ripensare i modelli di business ed intervenire nelle attività produttive richiede tempi non brevi e la valutazione di dinamiche complesse. Esse sono state però travolte dalla semplificazione che è conseguita alla, pur legittima, necessità di diffondere i presupposti della sostenibilità nel nostro operare quotidiano. A giocare contro la scrupolosità di molti e valenti studiosi che hanno sottolineato la complessità di tali cambiamenti è intervenuta anche una sorta di inibizione degli stessi studiosi verso un approccio che poteva apparire didascalico nei confronti degli operatori e che, se percepito tale, sarebbe rimasto confinato nei conclavi degli esperti. Chi oggi scrive di sostenibilità, del suo presupposto, la responsabilità sociale di impresa e del suo corollario, l’economia circolare, si espone ad entrambi i rischi. Il dato da cui parte questo lavoro resta, nonostante la consapevolezza testé espressa, la necessità di suggerire elementi di riflessione sui meccanismi – complessi – della riconversione dei modelli di business e anche di fornire dati tecnici che potrebbero sostenere la pianificazione da parte delle imprese di strategie di crescita sostenibile nel settore della moda. Il presente lavoro si avvale, infatti, di un doppio registro. Alla riflessione concettuale sulla responsabilità sociale di impresa e sulla sostenibilità - anzi, come emerge dai lavori del mondo accademico, sulla sovrapposizione tra i due impianti teorici - si affianca la ricostruzione dei comportamenti degli operatori del settore oggetto di analisi mediante una sorta di inventario degli standard adottati e dell’attitude da essi espressa nei confronti di questa tematica, attitude ricavata da, seppur parziali, inchieste qualitative. La scelta di focalizzare l’attenzione sull’industria della moda ed in particolare sul comparto del Tessile e Abbigliamento (T&A) scaturisce da due fattori: il peso che questo settore ancora esprime nel comparto manifatturiero del nostro paese e il grado di inquinamento da esso determinato. Quanto al primo di questi fattori, va ricordato che secondo i dati ISTAT rielaborati dall’ICE e dalla Confindustria Moda, questo comparto rappresenta, nonostante il ridimensionamento in atto da decenni, la seconda industria del paese in termini di numero di imprese, fatturato, contributo all’export. Il secondo fattore, reso noto non solo dagli esperti ma anche dalle inchieste giornalistiche italiane e straniere, è che il comparto del T&A è al secondo posto nel ranking dei settori che contribuiscono all’inquinamento globale, a ridosso cioè dell’industria energetica. Senza contare la race to the buttom in termini di diritti sociali che lo permea in maniera trasversale ai confini nazionali e agli stadi di sviluppo e le implicazioni etiche legate al maltrattamento degli animali. Alla scelta del settore, ha fatto seguito l’individuazione di alcune aree geografiche su cui apporre la nostra attenzione e avviare quel lavoro di ricostruzione del comportamento degli attori economici e istituzionali che avrebbero potuto corroborare la nostra intuizione originaria: la complessità di una riconversione troppo spesso semplificata da istanze di divulgazione. La scelta è caduta sull’Italia che resta la seconda potenza manifatturiera dell’Europa e sulla Cina e il Vietnam, entrambi destinazione di molteplici processi di delocalizzazione dell’industria moda e del comparto del T&A e, come vedremo, laboratori di adeguamento agli standard della responsabilità sociale di impresa e della sostenibilità. L’impostazione del libro, come detto, è segnata da un doppio registro. Da un lato, propone una review del dibattito scientifico sui temi della corporate social responsibility (CSR) e della sostenibilità quali leve di competitività, con un’analisi dello stato dell’arte di questo dibattito in realtà come la Cina e il Vietnam che si trovano spesso all’altro capo della filiera di produzione. La matrice teorica che ne deriva spiega le riflessioni del mondo scientifico ed istituzionale nel ritenere che la sostenibilità, declinata nell’attenzione all’impatto ambientale e alla dignità dell’uomo nei processi produttivi, sia un pilastro portante per costruire la performance del sistema moda nell’immediato futuro. Esplorare le posizioni delle istituzioni e delle comunità imprenditoriali della Cina e del Vietnam, consentirebbe inoltre di eludere l’impatto che le recenti tendenze verso l’accorciamento delle filiere di produzione possono sortire sulle relazioni con questi paesi e, almeno sul piano della ricerca, di proseguire nell’individuazione di modelli di business sostenibili che connettano l’industria della moda italiana con realtà che si stanno traducendo anche in mercati di sbocco sempre più ampi e esigenti in tema di responsabilità. Dall’altro lato, il testo si propone di spiegare, da un punto di vista manageriale, il fabbisogno di innovazione sostenibile, relativamente a risorse, competenze e processi; gli approcci gestionali e i meccanismi di governance per regolare le relazioni con le suppy chain. Propone un articolato inventario degli standard utilizzati nei tre paesi di riferimento e delle best practice rintracciate. A ciò si aggiunge una indagine qualitativa che, seppur condotta su campionature limitate, offre uno spaccato del mondo imprenditoriale e delle associazioni di categoria. L’esigenza degli autori di approfondire questi temi nasce anche dalla convinzione che le opportunità di asservire la logica della sostenibilità all’aumento della competitività, della riconoscibilità e della reputazione delle produzioni moda italiane siano ancora tante. Su questo aspetto il testo da un lato, intercetta l'accresciuta consapevolezza da parte degli attori economici (Italia in particolare) e istituzionali (Cina in particolare) della necessità di ripensare i modelli di produzione, e dall’altro evidenzia l’oggettiva difficoltà delle imprese ad affrontare i rischi insiti in una riconversione dei processi di produzione che richiede investimenti rilevanti sull’intera filiera a fronte di un modello di consumo etico che, in gran parte del mercato globale, stenta a superare le dimensioni dell’attuale domanda. In ragione, infatti, dello scarso potere d’acquisto delle grandi masse di consumatori che si stanno affacciando sui mercati o di un debole afflato ambientalista o viceversa di una versione radicale dell’impegno ambientalista che orienta verso il non consumo, la domanda di prodotti etici certificati, seppure presenti tassi di crescita a due cifre, resta confinata a segmenti limitati del mercato. Spostandoci, sul fronte interno all’impresa, le difficoltà si annidano soprattutto nelle competenze del capitale umano, ancora non formate ad affrontare la riconversione nel modo di produrre, e nella scarsa informazione sui costi reali della sostenibilità e dell’impatto che essa sortisce sul ROA e sui profitti. Tutte queste difficoltà sembrano sostenere una tendenza (per il momento solo tale) verso la cosiddetta “filiera corta”, l’unica finora in grado di consentire il controllo delle singole fasi del processo di produzione e di imporre quelle innovazioni di processo coerenti con gli obiettivi della sostenibilità. Ancora, lo stato dell’arte del sistema industriale e la sovrapposizione tra pratiche volontarie di CSR e politiche istituzionali improntate allo sviluppo sostenibile, sembrano condurre ad una riformulazione delle geometrie di potere tra imprese e istituzioni con una marcata prevalenza di queste ultime che, in nome e per conto del benessere di tutti gli stakeholder, tendono a ridimensionare il carattere volontario delle scelte operate dalle imprese. E’ probabile che il concorso di questi fattori abbia determinato la risposta tiepida sulla riconversione dei modelli di produzione fin qui espressa dalla grande maggioranza delle imprese del settore T&A. Scendendo nel dettaglio di questa affermazione, va detto che quello che sembra emergere è un sistema produttivo diviso in due modelli distinti. Da un lato, i grandi brand che discutono dei temi della sostenibilità e che - in Italia e in Cina (meno in Vietnam che si propone come “fabbrica del mondo” alternativa alla Cina) - tendono a imporsi come esempi virtuosi, di cui però non si conoscono le ricadute sull’intera filiera. Infatti, uno degli effetti della riorganizzazione, ormai trentennale, del rapporto tra produzione e distribuzione e dell’allungamento delle filiere di produzione è stato, per l’appunto, l’emersione di pochi brand a cui fa riscontro una pletora di supplier che operano in forma anonima e in una logica di ribasso dei costi. La domanda d’obbligo è se questi esempi si riverberano sull’intera filiera e se le istituzioni preposte allo sviluppo siano in grado di sostenere i costi della riconversione. Il cambiamento culturale che tutto ciò richiede è solo ai primi passi e non siamo riusciti ad ottenere dalle nostre inchieste altro che dichiarazioni di principio o vaghi impegni programmatici. Dall’altro, il sistema produttivo odierno si contraddistingue per l’emersione di tante piccole imprese che abbracciano i principi della sostenibilità fin dalla formulazione dell’idea imprenditoriale, di start up innovative che sperimentano nuovi materiali provenienti dalla lavorazione di scarti e rifiuti di attività produttive di settori diversi. Tali realtà si stanno rendendo sempre più visibili sui mercati del business to business e presso la domanda finale, ma la strada da compiere per far affermare nuovi modelli di consumo (ad esempio, i capi in prestito), così come per il successo dei principi dell’economia circolare nel ripensare le materie prime, è lunga. Un elemento, però, ha in parte liquidato lo scetticismo che potrebbe maturare dall’analisi e rispondere alla vaghezza dei primi attori e alla necessità di far emergere i secondi: l’European Green Deal, l’impegno lanciato dalla Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen per un’Europa che esca dalle secche del dibattito sull’ austerity e investa sul profilo della sostenibilità. La Presidente ha detto: «Il Green Deal europeo è la nostra nuova strategia di crescita. Contribuirà a ridurre le emissioni e al tempo stesso creerà occupazione. Al centro vi sarà una strategia industriale che consentirà alle nostre imprese - grandi e piccole - di innovare e di sviluppare nuove tecnologie, creando al contempo nuovi mercati. Stabiliremo standard a livello globale. Questo sarà il nostro vantaggio competitivo. E il miglior modo per assicurare parità di condizioni. Ma tutto questo dev'essere nell'interesse dei cittadini europei, che vogliono e si aspettano che l'Europa intervenga in materia di clima e di ambiente. Ma hanno anche bisogno di energia pulita e sicura a prezzi accessibili. Hanno bisogno delle competenze per svolgere i lavori del futuro. Hanno bisogno di spostarsi per svolgere questi nuovi lavori o di collegarsi da casa. E noi dobbiamo fare in modo che queste esigenze siano soddisfatte in maniera sostenibile». E’ lecito pensare che a questa dichiarazione d’intenti facciano seguito interventi finanziari, fiscali e formativi per le imprese, come peraltro sta già accadendo proprio in questi giorni con la costituzione, in Italia, del Fondo di Transizione Equa. Pertanto, vogliamo dare per scontato che laddove non abbia funzionato appieno il contributo scientifico a sostegno della tesi sulla responsabilità sociale di impresa come vantaggio competitivo, a convincere le imprese riesca la possibilità di accedere a fondi europei e di proporsi sui mercati internazionali come espressioni coerenti del modello economico della regione del mondo più votata al connubio tra crescita e qualità della vita. Alessandra De Chiara e Marisa Siddivò
2020
9788838697104
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11574/191408
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