I vincoli connessi a quella che Sthepen Ellis ha definito la diaspora criminale nigeriana scandiscono il tempo delle giovani ragazze una volta arrivate in Europa a partire dall’ammontare del debito contratto. Sono vincoli contraddistinti da forme fisiche e simboliche di una violenza agita il più delle volte da altre donne connazionali, e molteplici sono le coercizioni, morali e psichiche, che segnano i destini di queste giovani nigeriane. Queste donne non sono però passive, non lo sono mai state né si raccontano così quando si parla con loro: vittime non sono state né quando hanno deciso di partire (e se hanno intrapreso il lungo viaggio verso l’Europa è stato ad ogni costo), né nel momento in cui si sono opposte alle diverse donne con cui hanno contratto i loro debiti insolvibili, passando di mano in mano, di città in città; né infine lo sono quando diventano madri e una nuova violenza, inattesa e istituzionale, si abbatte su di loro e sui loro figli. I loro atti di insubordinazioni li hanno, dunque, pagati cari. Il corpo delle donne nigeriane si fa officina, spazio fisico dove si cucina e si consuma una violenza che lascia una traccia in assenza (tagli, bruciature, morsi, tremori e formicolii, ma anche interruzioni di gravidanza, figli dati in adozione). A partire da una ricerca etnografica lunga vent’anni e condotta tra Torino e Napoli, la migrazione nigeriana con la sua cifra distintiva di un debito al contempo finanziario e morale contribuisce a farci parlare del valore delle persone e delle cose, del potere che si manifesta nel rito e si abbatte su tutto quanto in esso si produce, e del tipo di conoscenza che dentro un tale sistema di assoggettamento si riproduce incessantemente: controllando i corpi, negoziando il legame e “liberando” dal male, per dischiudere alla manciata di vita che resta.
Il tempo della disobbedienza. Per un'antropologia della parentela nella migrazione
Simona Taliani
2019-01-01
Abstract
I vincoli connessi a quella che Sthepen Ellis ha definito la diaspora criminale nigeriana scandiscono il tempo delle giovani ragazze una volta arrivate in Europa a partire dall’ammontare del debito contratto. Sono vincoli contraddistinti da forme fisiche e simboliche di una violenza agita il più delle volte da altre donne connazionali, e molteplici sono le coercizioni, morali e psichiche, che segnano i destini di queste giovani nigeriane. Queste donne non sono però passive, non lo sono mai state né si raccontano così quando si parla con loro: vittime non sono state né quando hanno deciso di partire (e se hanno intrapreso il lungo viaggio verso l’Europa è stato ad ogni costo), né nel momento in cui si sono opposte alle diverse donne con cui hanno contratto i loro debiti insolvibili, passando di mano in mano, di città in città; né infine lo sono quando diventano madri e una nuova violenza, inattesa e istituzionale, si abbatte su di loro e sui loro figli. I loro atti di insubordinazioni li hanno, dunque, pagati cari. Il corpo delle donne nigeriane si fa officina, spazio fisico dove si cucina e si consuma una violenza che lascia una traccia in assenza (tagli, bruciature, morsi, tremori e formicolii, ma anche interruzioni di gravidanza, figli dati in adozione). A partire da una ricerca etnografica lunga vent’anni e condotta tra Torino e Napoli, la migrazione nigeriana con la sua cifra distintiva di un debito al contempo finanziario e morale contribuisce a farci parlare del valore delle persone e delle cose, del potere che si manifesta nel rito e si abbatte su tutto quanto in esso si produce, e del tipo di conoscenza che dentro un tale sistema di assoggettamento si riproduce incessantemente: controllando i corpi, negoziando il legame e “liberando” dal male, per dischiudere alla manciata di vita che resta.File | Dimensione | Formato | |
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