Sebbene l’antropologia si sia occupata tardivamente dei bambini, oggi questi piccoli soggetti sono finalmente collocati nello spazio che spetta loro di diritto: al crocevia tra il pubblico e il privato, il politico e il personale, tra lo Stato e l’‘istinto materno’. Nelle storie di adozione dei figli degli immigrati vanno prese in considerazione le estetiche e le tecniche del corpo presenti nelle famiglie – l’eccesso di melanina (per riprendere l’espressione di Fanon) o il body odor (per usare le parole delle madri nigeriane) – ma emerge anche un uso superficiale della nozione di “cultura” nelle Istituzioni deputate alla tutela e alla cura dell’infanzia. L’articolo vuole sviluppare quest’ultimo profilo, analizzando quegli impensati sociali dello Stato-nazione borghese per quanto attiene alle tecnologie della cittadinanza e della genitorialità imposte ai vari subalterni (minoranze, immigrati, rifugiati, meticci), in una perturbante continuità con quanto già accaduto nelle colonie e, ancor prima, durante la nascita stessa degli Stati moderni e delle cosiddette famiglie postcoloniali. Come si costruisce un bambino adottabile quando figlio di genitori immigrati? Sembra emerge qui per intero una forma di incorporazione ‘democratica’ di questi bambini in seno allo Stato italiano e alle sue ‘buone famiglie’ una volta costruita ad hoc la loro alterità nazionale, sociale e culturale dai loro genitori (non sufficientemente buoni). La cultura di questi genitori – qualunque cosa voglia dire l’espressione – viene stereotipata attraverso un discorso pseudo-scientifico costruito su categorie bio-mediche e socio-giuridiche usate in malafede. L’articolo intende interrogare un campo disciplinare, l’antropologia, per comprendere se sia possibile spingere verso una nuova consapevolezza gli Altri (psicologi, educatori, assistenti sociali, ecc.). Come gli antropologi possono usare il loro capitale culturale per consolidare i pilastri di un’antropologia impegnata?

Non esistono culture innocenti. Gli antropologi, le famiglie spossessate e i bambini adottabili

TALIANI, Simona
2014-01-01

Abstract

Sebbene l’antropologia si sia occupata tardivamente dei bambini, oggi questi piccoli soggetti sono finalmente collocati nello spazio che spetta loro di diritto: al crocevia tra il pubblico e il privato, il politico e il personale, tra lo Stato e l’‘istinto materno’. Nelle storie di adozione dei figli degli immigrati vanno prese in considerazione le estetiche e le tecniche del corpo presenti nelle famiglie – l’eccesso di melanina (per riprendere l’espressione di Fanon) o il body odor (per usare le parole delle madri nigeriane) – ma emerge anche un uso superficiale della nozione di “cultura” nelle Istituzioni deputate alla tutela e alla cura dell’infanzia. L’articolo vuole sviluppare quest’ultimo profilo, analizzando quegli impensati sociali dello Stato-nazione borghese per quanto attiene alle tecnologie della cittadinanza e della genitorialità imposte ai vari subalterni (minoranze, immigrati, rifugiati, meticci), in una perturbante continuità con quanto già accaduto nelle colonie e, ancor prima, durante la nascita stessa degli Stati moderni e delle cosiddette famiglie postcoloniali. Come si costruisce un bambino adottabile quando figlio di genitori immigrati? Sembra emerge qui per intero una forma di incorporazione ‘democratica’ di questi bambini in seno allo Stato italiano e alle sue ‘buone famiglie’ una volta costruita ad hoc la loro alterità nazionale, sociale e culturale dai loro genitori (non sufficientemente buoni). La cultura di questi genitori – qualunque cosa voglia dire l’espressione – viene stereotipata attraverso un discorso pseudo-scientifico costruito su categorie bio-mediche e socio-giuridiche usate in malafede. L’articolo intende interrogare un campo disciplinare, l’antropologia, per comprendere se sia possibile spingere verso una nuova consapevolezza gli Altri (psicologi, educatori, assistenti sociali, ecc.). Come gli antropologi possono usare il loro capitale culturale per consolidare i pilastri di un’antropologia impegnata?
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