Il volume analizza la transizione democratica dell'Unione Sovietica (1989-91), sottolineandone il fallimento ed evidenziando l’affermarsi di un modello “democrazia illiberale” che ha finito per caratterizzare gran parte degli Stati emersi dal crollo dell’URSS. La tesi principale è che la democratizatsiya sia rimasta vittima di un “eccesso di democrazia”, in cui l'elevata mobilitazione popolare, [e l’abuso degli istituti di “democrazia diretta] da parte delle élite politiche in competizione, ha pregiudicato l’equilibrio necessario per un'evoluzione in senso liberaldemocratico. Nonostante la formazione nel 1989 del Congresso del Popolo, il primo parlamento eletto in modo competitivo in URSS, la stessa retorica radicale della demokratizatsia spinse la lotta politica a ricorrere sempre più frequentemente agli istituti di democrazia diretta, come il mandato imperativo, la revoca e il referendum, finendo per delegittimare le istituzioni rappresentative. In un contesto di crescente disordine politico e conflitto istituzionale, tutti gli attori in campo, sia al centro che nelle repubbliche, si volsero allora a un altro istituto di ‘democrazia diretta’—il Presidente eletto direttamente dal popolo. Questo generò una peculiare sinergia tra una “sindrome presidenzialista” e una “sindrome populista-plebiscitaria”, in cui i Presidenti si legittimavano tramite referendum e plebisciti, minando l'autorità dei partiti e dei parlamenti e ignorando leggi, trattati e vincoli istituzionali, fino a compromettere l'Unione stessa. Il capitolo finale segue gli sviluppi nel successivo decennio (1992-2002) analizzando i casi di Russia, Bielorussia, Ucraina, Georgia, Azerbaijan e delle cinque repubbliche dell’Asia Centrale ed evidenziando come il modello del “presidenzialismo plebiscitario” abbia messo radici in gran parte dello spazio post-sovieticio.

Demokratizatsiya: la transizione fallita. Democrazia populista e presidenzialismo plebiscitario nell'URSS e nello spazio post-sovietico.

O. Cappelli
2004-01-01

Abstract

Il volume analizza la transizione democratica dell'Unione Sovietica (1989-91), sottolineandone il fallimento ed evidenziando l’affermarsi di un modello “democrazia illiberale” che ha finito per caratterizzare gran parte degli Stati emersi dal crollo dell’URSS. La tesi principale è che la democratizatsiya sia rimasta vittima di un “eccesso di democrazia”, in cui l'elevata mobilitazione popolare, [e l’abuso degli istituti di “democrazia diretta] da parte delle élite politiche in competizione, ha pregiudicato l’equilibrio necessario per un'evoluzione in senso liberaldemocratico. Nonostante la formazione nel 1989 del Congresso del Popolo, il primo parlamento eletto in modo competitivo in URSS, la stessa retorica radicale della demokratizatsia spinse la lotta politica a ricorrere sempre più frequentemente agli istituti di democrazia diretta, come il mandato imperativo, la revoca e il referendum, finendo per delegittimare le istituzioni rappresentative. In un contesto di crescente disordine politico e conflitto istituzionale, tutti gli attori in campo, sia al centro che nelle repubbliche, si volsero allora a un altro istituto di ‘democrazia diretta’—il Presidente eletto direttamente dal popolo. Questo generò una peculiare sinergia tra una “sindrome presidenzialista” e una “sindrome populista-plebiscitaria”, in cui i Presidenti si legittimavano tramite referendum e plebisciti, minando l'autorità dei partiti e dei parlamenti e ignorando leggi, trattati e vincoli istituzionali, fino a compromettere l'Unione stessa. Il capitolo finale segue gli sviluppi nel successivo decennio (1992-2002) analizzando i casi di Russia, Bielorussia, Ucraina, Georgia, Azerbaijan e delle cinque repubbliche dell’Asia Centrale ed evidenziando come il modello del “presidenzialismo plebiscitario” abbia messo radici in gran parte dello spazio post-sovieticio.
2004
88-7188-850-2
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