Il presente studio propone un’indagine sui significati intorno a una lingerie destinata al pubblico femminile per valutarne le potenzialità politiche. Proprio per la sua particolarità, che consiste nell’essere a stretto contatto con il corpo, questa tipologia di capo solleva questioni rilevanti intorno agli ideali di corpo, di femminilità e di intimità. Numerosi studi sulla biancheria intima hanno proposto un taglio storico (Kunzle 2004, Steele 2001, Summers 2001), o ne hanno ripercorso gli sviluppi dalle sue origini fino ai tempi più recenti (Fields 2007). Questa ricerca invece intende focalizzarsi sulla produzione di biancheria intima negli ultimi dieci anni: quest’arco temporale non è casuale, perché coincide con lo sviluppo di un discorso critico verso la moda che predilige modelli di femminilità stereotipati. Più ad ampio raggio il mondo della moda è stato investito da discussioni intorno alla necessità di rivalutare il suo ruolo nell’ambito dell’impegno sociale. Questi dibattiti si sono dimostrati di cruciale rilevanza, e hanno spinto i brand di moda a dichiarare un impegno concreto verso questioni legate all’inclusività, emancipazione femminile e sostenibilità. Le strategie adottate assumono configurazioni eterogenee, ma in alcuni casi rischiano di ridursi a operazioni superficiali o strumentali, che si indicano con termini quali pink-washing o green-washing. Gli studi storici di costume rappresentano certamente delle fonti preziose a cui attingere, tuttavia questi ultimi hanno spesso isolato l’abito dal corpo che lo indossa e trascurato i significati che questo rapporto genera, al fine di descriverlo minuziosamente nella sua materialità. Successivamente, con l’influenza degli studi culturali, i fashion studies sono stati fortemente influenzati dalle scienze umane e sono passati a privilegiare un’analisi semiotica. L’eccessiva propensione verso una sola delle due dimensioni – cioè del materiale a dispetto del simbolico, o viceversa – ha spesso portato a risultati insoddisfacenti, perché si è perso di vista il fatto che, se è vero che l’abito viene significato in un contesto culturale specifico, d’altra parte sono anche i materiali a giocare un ruolo nella definizione del suo ruolo sociale. Questa ricerca si inserisce nel filone del new materialism e si propone di superare la dicotomia tra i due approcci. Si sostiene che il materiale influenzi il simbolico e viceversa e, in tale prospettiva, le due dimensioni sono considerate interdipendenti (Miller 2005; Woodward, Fisher 2014). Il termine glamour, su cui è incentrato il secondo capitolo, richiama immaginari trasgressivi e una sessualità esplicita. Le figure più emblematiche dell’universo glamour sono in maggioranza personaggi femminili e la diva hollywoodiana ne rappresenta l’espressione più eloquente. È stata proprio la diffusione di un modello di femminilità celebrato per il possesso di fascino, di un corpo desiderabile e di fama a suscitare le resistenze del movimento femminista, specie del femminismo radicale della cosiddetta seconda ondata. Simili posizioni culminarono in alcune proteste emblematiche, tra cui quella del 1969 ad Atlantic City contro il concorso di Miss America. Si può constatare come in pochissimo tempo il discorso femminista evolva, passando da una posizione di critica intransigente e militante nei confronti dei modelli canonici della bellezza femminile e del consumo, all’elaborazione di una critica più articolata e dialettica, che si è aperta alla possibilità di attuare forme di agency. Così, le sex wars hanno assunto una certa importanza nei dibattiti femministi sulla sessualità, portando alla luce le divisioni interne al movimento. È chiaro poi che alcuni capi di abbigliamento in particolare, come appunto quelli dell’intimo, puntano a far risaltare un tipo di femminilità che veniva etichettata tout court come asservita al potere maschile, e la cui connotazione univocamente negativa viene messa in discussione. Posizioni di questo tipo incoraggiano inoltre una rivalutazione della moda, che è un universo da trattare con un’attenzione seria, per sovvertire un paradigma intellettuale che l’ha a lungo ignorata o affrontata con diffidenza (Wilson 2010). Il focus applicativo della ricerca è proposto nell’ambito di due realtà aziendali emergenti, la cui fondazione è stata sin dall’inizio legata all’obiettivo di proporre iniziative e messaggi legati per incoraggiare l’emancipazione femminile. Sono due realtà specializzate esclusivamente nella produzione di lingerie: Chitè, che opera in Italia a Milano; e Daniela Paradeis, collocata a Vienna. Attraverso questi due case-study si intende verificare la seguente domanda di ricerca: in che modo le due realtà produttive si misurano con il mondo del glamour nella produzione di una lingerie promossa come emancipatoria? Per rispondere a questo quesito, un’analisi è condotta attraverso l’etnografia. L’impostazione etnografica ha inoltre adottato una prospettiva critica rispetto alle convenzioni tradizionali delle interviste etnografiche. Questo tema sarà approfondito nella sezione nel quarto capitolo intitolato “Limiti e (ri)adattamenti nell'etnografia: un confronto tra Chitè e Daniela Paradeis”. Tra i più significativi risultati raccolti presso l’azienda Chitè vale la pena menzionare una generale propensione per una lingerie confortevole, laddove il confort appare la prima strada da perseguire per l’emancipazione femminile. Le scelte di design si orientano intorno a concetti di equilibrio e eleganza, che sembrano rifarsi a una tradizione culturale della scena italiana del design, in cui sono ammesse poche deviazioni dalle norme di “buongusto”, e in cui la creatività deve piegarsi a favore di una buona manifattura e vestibilità (Volontè 2012). Dal punto di vista iconografico, emerge un chiaro distacco dalle rappresentazioni artificiali e un’opposizione a espressioni estetiche considerate di “cattivo gusto”. Gli scambi con lo store manager consentono di delineare una “geografia della moda” di Chitè (Crewe 2017). Nel caso di Daniela Paradeis, il brand propone una lingerie molto più intricata, con l’intenzione di produrre modelli poco reperibili sul mercato. Le fotografie di Daniela Paradeis si ispirano al genere boudoir, originariamente scattate per essere donate al partner in occasioni come il matrimonio. Nel tempo, però, il genere boudoir si è anche slegato da queste ritualità (Parkins 2020). La comunicazione rende noti i procedimenti dietro la produzione iconografica e materiale, che spesso si serve di budget ridotti, ciononostante mantenendosi nei termini di una produzione di lusso, laddove l’esperienza di lusso risiede in una produzione proposta come autentica e su misura. La vendita si presenta come un incontro intimo, in cui la designer promuove l’accettazione del corpo femminile e il dialogo diretto. A Vienna, i richiami alla geografia della moda sono meno marcati rispetto a Milano, ma talvolta evocano scenari idealizzati del passato, come il Wiener Salon, richiamato in un pop-up di Daniela Paradeis. Le caratteristiche degli eventi pop-up saranno illustrate nella parte finale di questo lavoro.

Le potenzialità emancipatorie del glamour: l'esempio della lingerie

Fabiola Adamo
2025-01-01

Abstract

Il presente studio propone un’indagine sui significati intorno a una lingerie destinata al pubblico femminile per valutarne le potenzialità politiche. Proprio per la sua particolarità, che consiste nell’essere a stretto contatto con il corpo, questa tipologia di capo solleva questioni rilevanti intorno agli ideali di corpo, di femminilità e di intimità. Numerosi studi sulla biancheria intima hanno proposto un taglio storico (Kunzle 2004, Steele 2001, Summers 2001), o ne hanno ripercorso gli sviluppi dalle sue origini fino ai tempi più recenti (Fields 2007). Questa ricerca invece intende focalizzarsi sulla produzione di biancheria intima negli ultimi dieci anni: quest’arco temporale non è casuale, perché coincide con lo sviluppo di un discorso critico verso la moda che predilige modelli di femminilità stereotipati. Più ad ampio raggio il mondo della moda è stato investito da discussioni intorno alla necessità di rivalutare il suo ruolo nell’ambito dell’impegno sociale. Questi dibattiti si sono dimostrati di cruciale rilevanza, e hanno spinto i brand di moda a dichiarare un impegno concreto verso questioni legate all’inclusività, emancipazione femminile e sostenibilità. Le strategie adottate assumono configurazioni eterogenee, ma in alcuni casi rischiano di ridursi a operazioni superficiali o strumentali, che si indicano con termini quali pink-washing o green-washing. Gli studi storici di costume rappresentano certamente delle fonti preziose a cui attingere, tuttavia questi ultimi hanno spesso isolato l’abito dal corpo che lo indossa e trascurato i significati che questo rapporto genera, al fine di descriverlo minuziosamente nella sua materialità. Successivamente, con l’influenza degli studi culturali, i fashion studies sono stati fortemente influenzati dalle scienze umane e sono passati a privilegiare un’analisi semiotica. L’eccessiva propensione verso una sola delle due dimensioni – cioè del materiale a dispetto del simbolico, o viceversa – ha spesso portato a risultati insoddisfacenti, perché si è perso di vista il fatto che, se è vero che l’abito viene significato in un contesto culturale specifico, d’altra parte sono anche i materiali a giocare un ruolo nella definizione del suo ruolo sociale. Questa ricerca si inserisce nel filone del new materialism e si propone di superare la dicotomia tra i due approcci. Si sostiene che il materiale influenzi il simbolico e viceversa e, in tale prospettiva, le due dimensioni sono considerate interdipendenti (Miller 2005; Woodward, Fisher 2014). Il termine glamour, su cui è incentrato il secondo capitolo, richiama immaginari trasgressivi e una sessualità esplicita. Le figure più emblematiche dell’universo glamour sono in maggioranza personaggi femminili e la diva hollywoodiana ne rappresenta l’espressione più eloquente. È stata proprio la diffusione di un modello di femminilità celebrato per il possesso di fascino, di un corpo desiderabile e di fama a suscitare le resistenze del movimento femminista, specie del femminismo radicale della cosiddetta seconda ondata. Simili posizioni culminarono in alcune proteste emblematiche, tra cui quella del 1969 ad Atlantic City contro il concorso di Miss America. Si può constatare come in pochissimo tempo il discorso femminista evolva, passando da una posizione di critica intransigente e militante nei confronti dei modelli canonici della bellezza femminile e del consumo, all’elaborazione di una critica più articolata e dialettica, che si è aperta alla possibilità di attuare forme di agency. Così, le sex wars hanno assunto una certa importanza nei dibattiti femministi sulla sessualità, portando alla luce le divisioni interne al movimento. È chiaro poi che alcuni capi di abbigliamento in particolare, come appunto quelli dell’intimo, puntano a far risaltare un tipo di femminilità che veniva etichettata tout court come asservita al potere maschile, e la cui connotazione univocamente negativa viene messa in discussione. Posizioni di questo tipo incoraggiano inoltre una rivalutazione della moda, che è un universo da trattare con un’attenzione seria, per sovvertire un paradigma intellettuale che l’ha a lungo ignorata o affrontata con diffidenza (Wilson 2010). Il focus applicativo della ricerca è proposto nell’ambito di due realtà aziendali emergenti, la cui fondazione è stata sin dall’inizio legata all’obiettivo di proporre iniziative e messaggi legati per incoraggiare l’emancipazione femminile. Sono due realtà specializzate esclusivamente nella produzione di lingerie: Chitè, che opera in Italia a Milano; e Daniela Paradeis, collocata a Vienna. Attraverso questi due case-study si intende verificare la seguente domanda di ricerca: in che modo le due realtà produttive si misurano con il mondo del glamour nella produzione di una lingerie promossa come emancipatoria? Per rispondere a questo quesito, un’analisi è condotta attraverso l’etnografia. L’impostazione etnografica ha inoltre adottato una prospettiva critica rispetto alle convenzioni tradizionali delle interviste etnografiche. Questo tema sarà approfondito nella sezione nel quarto capitolo intitolato “Limiti e (ri)adattamenti nell'etnografia: un confronto tra Chitè e Daniela Paradeis”. Tra i più significativi risultati raccolti presso l’azienda Chitè vale la pena menzionare una generale propensione per una lingerie confortevole, laddove il confort appare la prima strada da perseguire per l’emancipazione femminile. Le scelte di design si orientano intorno a concetti di equilibrio e eleganza, che sembrano rifarsi a una tradizione culturale della scena italiana del design, in cui sono ammesse poche deviazioni dalle norme di “buongusto”, e in cui la creatività deve piegarsi a favore di una buona manifattura e vestibilità (Volontè 2012). Dal punto di vista iconografico, emerge un chiaro distacco dalle rappresentazioni artificiali e un’opposizione a espressioni estetiche considerate di “cattivo gusto”. Gli scambi con lo store manager consentono di delineare una “geografia della moda” di Chitè (Crewe 2017). Nel caso di Daniela Paradeis, il brand propone una lingerie molto più intricata, con l’intenzione di produrre modelli poco reperibili sul mercato. Le fotografie di Daniela Paradeis si ispirano al genere boudoir, originariamente scattate per essere donate al partner in occasioni come il matrimonio. Nel tempo, però, il genere boudoir si è anche slegato da queste ritualità (Parkins 2020). La comunicazione rende noti i procedimenti dietro la produzione iconografica e materiale, che spesso si serve di budget ridotti, ciononostante mantenendosi nei termini di una produzione di lusso, laddove l’esperienza di lusso risiede in una produzione proposta come autentica e su misura. La vendita si presenta come un incontro intimo, in cui la designer promuove l’accettazione del corpo femminile e il dialogo diretto. A Vienna, i richiami alla geografia della moda sono meno marcati rispetto a Milano, ma talvolta evocano scenari idealizzati del passato, come il Wiener Salon, richiamato in un pop-up di Daniela Paradeis. Le caratteristiche degli eventi pop-up saranno illustrate nella parte finale di questo lavoro.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11574/245840
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