In questo lavoro rifletto su come la caduta del confine tra natura e società, e tra forme di esseri viventi diversi messa in atto dalle scienze biologiche, stia offrendo una sorta di continuità tra ontologie scientifiche, in particolare quelle che studiano le piante, e le ontologie native che si fondano su presupposti continuativi e relazionali tra forme di vita a cui le scienze della vita stanno giungendo avendo percorso cammini nella storia attraverso metodi e teorie controverse. Avanzo l'ipotesi che i diversificati pensieri nativi che non aderiscono al paradigma naturalista Occidentale, si riconoscerebbero nelle consapevolezze raggiunte dalle odierne scienze botaniche. Questa "continuità" tra scienza ed ontologie indigene, ma soprattutto tra pratiche e saperi ha una grande rilevanza in relazione alle possibili risposte congiunte da dare per un'azione politica contro l'insostenibilità del sistema attuale di accaparramento delle risorse e dei territori, e a difesa dei diritti che vedono senza discontinuità popoli, nativi e ambiente (Rose 2005; Hallison 2015). Risposte che hanno capacità di incidenza indubbiamente diverse a seconda delle posizioni inferiorizzate e marginalizzate che le popolazioni native sono state costrette ad occupare all'interno dei propri Stati e a seconda dello status giuridico, assegnato alla "natura" e/o all'ambiente. La messa in atto politica della continuità tra ontologie scientifiche e native potrebbe dare strumenti giuridici a favore della difesa dei diritti della "Natura" non più separata dalla nozione di società/cultura, e non più gerarchizzata al suo interno. Tale separazione ha storicamente alienato “natura” e “società”, rendendo risorse e persone isolate, mobili e dunque soggetti vulnerabili all'esproprio. Le antiche e attuali forme di colonizzazione hanno imposto nel corso della storia i loro principi di predazione negando l'intreccio tra la forme di vita umane e non umane, come la botanica ci sta indicando, ma anche come i saperi e le pratiche native da tempo ci hanno mostrato, secondo quella che Rose (2005) ha definito the “indigenous ethic of connection.” Questo lavoro e i suoi intenti sono divisi in due parti connesse ma ben distinte: nella prima si propone di riflettere su aspetti centrali della svolta botanica a partire dai punti di vista delle odierne scienze delle piante, come rappresentative di un rilevante processo di auto-decolonizzazione che obbliga a ripensare in maniera radicale le basi ideologiche e politico-economiche su cui si regge molta parte delle pratiche socioeconomiche capitaliste, neocolonialiste delle società industrializzate in generale. Tale svolta botanica è in linea con un complesso ontologico condiviso nelle sue fondamenta da molte popolazioni indigene, non in senso strettamente etnobotanico. Rifletterò su tale convergenza nella seconda parte di questo lavoro, a partire dagli ikoots (huave) di San Mateo del Mar (Oaxaca, Messico), pescatori di ambienti lagunari lungo le coste dell’Oceano Pacifico, per mettere in evidenza come la costruzione delle relazioni con e tra forme di vita siano continuative. Le continuità sono tanto dense da interrogarsi se gli ikoots “agiscano come” delle piante condividendo quei principi e quelle strategie necessarie ai viventi per fondare e garantire una vita collettiva su questa terra costruita soprattutto sulla base della "ethic of connection".

Al di là della svolta botanica. Continuità tra pratiche di vita e di pensiero scientifici e nativi.

Flavia G. Cuturi
2020-01-01

Abstract

In questo lavoro rifletto su come la caduta del confine tra natura e società, e tra forme di esseri viventi diversi messa in atto dalle scienze biologiche, stia offrendo una sorta di continuità tra ontologie scientifiche, in particolare quelle che studiano le piante, e le ontologie native che si fondano su presupposti continuativi e relazionali tra forme di vita a cui le scienze della vita stanno giungendo avendo percorso cammini nella storia attraverso metodi e teorie controverse. Avanzo l'ipotesi che i diversificati pensieri nativi che non aderiscono al paradigma naturalista Occidentale, si riconoscerebbero nelle consapevolezze raggiunte dalle odierne scienze botaniche. Questa "continuità" tra scienza ed ontologie indigene, ma soprattutto tra pratiche e saperi ha una grande rilevanza in relazione alle possibili risposte congiunte da dare per un'azione politica contro l'insostenibilità del sistema attuale di accaparramento delle risorse e dei territori, e a difesa dei diritti che vedono senza discontinuità popoli, nativi e ambiente (Rose 2005; Hallison 2015). Risposte che hanno capacità di incidenza indubbiamente diverse a seconda delle posizioni inferiorizzate e marginalizzate che le popolazioni native sono state costrette ad occupare all'interno dei propri Stati e a seconda dello status giuridico, assegnato alla "natura" e/o all'ambiente. La messa in atto politica della continuità tra ontologie scientifiche e native potrebbe dare strumenti giuridici a favore della difesa dei diritti della "Natura" non più separata dalla nozione di società/cultura, e non più gerarchizzata al suo interno. Tale separazione ha storicamente alienato “natura” e “società”, rendendo risorse e persone isolate, mobili e dunque soggetti vulnerabili all'esproprio. Le antiche e attuali forme di colonizzazione hanno imposto nel corso della storia i loro principi di predazione negando l'intreccio tra la forme di vita umane e non umane, come la botanica ci sta indicando, ma anche come i saperi e le pratiche native da tempo ci hanno mostrato, secondo quella che Rose (2005) ha definito the “indigenous ethic of connection.” Questo lavoro e i suoi intenti sono divisi in due parti connesse ma ben distinte: nella prima si propone di riflettere su aspetti centrali della svolta botanica a partire dai punti di vista delle odierne scienze delle piante, come rappresentative di un rilevante processo di auto-decolonizzazione che obbliga a ripensare in maniera radicale le basi ideologiche e politico-economiche su cui si regge molta parte delle pratiche socioeconomiche capitaliste, neocolonialiste delle società industrializzate in generale. Tale svolta botanica è in linea con un complesso ontologico condiviso nelle sue fondamenta da molte popolazioni indigene, non in senso strettamente etnobotanico. Rifletterò su tale convergenza nella seconda parte di questo lavoro, a partire dagli ikoots (huave) di San Mateo del Mar (Oaxaca, Messico), pescatori di ambienti lagunari lungo le coste dell’Oceano Pacifico, per mettere in evidenza come la costruzione delle relazioni con e tra forme di vita siano continuative. Le continuità sono tanto dense da interrogarsi se gli ikoots “agiscano come” delle piante condividendo quei principi e quelle strategie necessarie ai viventi per fondare e garantire una vita collettiva su questa terra costruita soprattutto sulla base della "ethic of connection".
2020
978-88-97826-78-1
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11574/195208
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